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Fotoni preveggenti
Annibale D’Ercole

Nel 1801, Thomas Young realizzò un famoso esperimento con cui dimostrò che la luce non è composta da particelle, come sostenuto da Newton, ma mostra piuttosto una natura ondulatoria.

L’esperimento si basa su una proprietà comune a tutti i tipi di onde (marine, sonore, elettromagnetiche ecc.), quella cioè di dare luogo a fenomeni di interferenza. Se lanciamo un sasso in uno stagno, dal punto di impatto si propagano onde circolari che fanno oscillare la superficie dell’acqua in alto e in basso rispetto al livello imperturbato; il punto più alto dell’oscillazione rappresenta l’ampiezza dell’onda e viene detto cresta, e quello più basso ventre. La distanza tra due creste rappresenta la lunghezza d’onda. Se ora lanciamo due sassi contemporaneamente, le onde generate dall’uno e dall’altro interferiscono, ovvero si incontrano sovrapponendosi. Esse si rafforzano reciprocamente, dove due creste o due ventri si sovrappongono, e si elidono, dove una cresta si sovrappone a un ventre. In generale, l’interferenza viene detta costruttiva quando l’ampiezza risultante è maggiore di ogni singola ampiezza originaria, e distruttiva quando risulta inferiore (Fig. 1).

 

 

Fig. 1. Interferenza di due onde circolari. I cerchi colorati rappresentano le creste delle due onde imperturbate. Le zone chiare corrispondono alle creste dell’onda risultante e si formano all’incrocio dei cerchi colorati. A metà strada tra questi incroci ci sono i ventri risultanti, indicati dalle zone scure.

 

Nell’esperimento di Young, un fascio di luce monocromatica (composta cioè da tutte onde di stessa lunghezza d’onda) illumina una sottile superficie (il diaframma) dotata di due fenditure parallele. La luce attraversa le fenditure e raggiunge uno schermo posto dietro il diaframma. Sullo schermo si forma una figura di interferenza composta da una sequenza di bande chiare (nei punti in cui la luce proveniente dalle due fenditure interferisce costruttivamente) alternate a bande scure (nei punti in cui si verifica un’interferenza distruttiva). Queste bande vengono dette frange di interferenza e forniscono la prova inequivocabile che la luce si comporta come le onde nello stagno, dunque rivelando una natura ondulatoria. Se, infatti, la luce fosse composta da particelle, allora quelle che attraversano la prima fenditura proseguirebbero la loro traiettoria rettilinea fino a raggiungere lo schermo in un punto preciso. Analogamente si comporterebbero le particelle che attraversano la seconda fenditura, e sullo schermo si formerebbero solo due bande luminose in corrispondenza delle due fenditure (Fig. 2).

 

 

Fig. 2. Schema dell’esperimento di Young. Le onde sferiche originantesi dalle due fessure creano una serie di interferenze costruttive e distruttive, dando luogo sullo schermo alle frange di interferenza.

 

Tuttavia, nel 1905 Einstein mostrò che, per spiegare l’effetto fotoelettrico, è necessario ammettere che la luce sia composta da particelle energetiche dette fotoni. L’effetto fotoelettrico si verifica quando un fascio luminoso di frequenza opportuna illumina una superficie metallica estraendone elettroni. Il fatto che l’intensità della radiazione determini il numero degli elettroni estratti, ma non la loro energia – che invece dipende dalla frequenza della luce incidente – non può essere spiegato dalla teoria ondulatoria della luce, ma è facilmente interpretabile in termini corpuscolari. Ogni fotone ha un’energia proporzionale alla frequenza della radiazione e dunque fotoni di frequenza maggiore trasferiscono maggiore energia agli elettroni del metallo contro cui urtano, “sbalzandoli” via. Inoltre, l’intensità di un raggio luminoso è data dal numero di fotoni che lo compongono; pertanto, raggi più intensi determinano un maggior numero di urti ed estraggono più elettroni (Fig. 3).

 

 

Fig. 3. Schema dell’effetto fotoelettrico. Sono illustrati fotoni incidenti su una superficie di potassio. I fotoni con frequenza maggiore (lunghezza d’onda minore) comunicano velocità maggiori agli elettroni espulsi dopo averli urtati. Le lunghezze d’onda sono date in nanometri (nm) e le corrispondenti energie cinetiche dei fotoni in elettronvolt (eV). Fotoni con energia inferiore a 2 eV non sono in grado di estrarre elettroni.

 

L’esperimento di Young e l’effetto fotoelettrico illustrano il principio di complementarietà: la luce può mostrare sia caratteristiche ondulatorie che discrete, ma mai contemporaneamente. Non possiamo dire cosa faccia in realtà la luce quando non la osserviamo tramite qualche esperimento. In base a tale principio, potremmo dunque ritenere che l’esperimento di Young attenga all’aspetto ondulatorio della radiazione, senza alcuna implicazione riguardo al comportamento dei fotoni. In realtà non è così e l’esperimento della doppia fenditura rivela aspetti ancor più sconcertanti di quello enunciato nel principio di complementarietà.

Torniamo all’esperimento di Young e riduciamo l’intensità del fascio luminoso al punto che, nel linguaggio quantistico, venga emesso un solo fotone alla volta. Se al posto dello schermo poniamo una pellicola fotografica, il fotone la raggiungerà formando una macchiolina “puntiforme”. Una volta che si siano formate molte di queste macchioline, emerge una figura di interferenza punteggiata uguale a quella che si ottiene nel caso “standard”. Questo risultato è strano perché sembra indicare che ogni singolo fotone “sia a conoscenza” di entrambe le fenditure, in modo da poter cooperare con gli altri fotoni per dare la figura di interferenza: è come se esso passasse attraverso entrambe le aperture. Se si tenta di capire dove il fotone passa realmente, ponendo dei rivelatori davanti alle fenditure, la figura di diffrazione scompare e si formano solo due bande luminose, proprio come ci si aspetta da una descrizione corpuscolare della luce. In altri termini, la radiazione esibisce un comportamento ondulatorio fintanto che non si provi a individuare la “vera” traiettoria dei fotoni; l’eventuale misura “costringe” ogni fotone a “scegliere” da che parte andare, e non si crea nessuna interferenza.

Sebbene questo risultato sia già alquanto sorprendente, se ne ottiene un altro assai più sconcertante apportando una (apparentemente) piccola modifica all’esperimento. Invece di porre i rivelatori davanti al diaframma, li si posiziona dietro di esso, a ridosso dello schermo. Il risultato che si ottiene è lo stesso: la figura di diffrazione permane fintanto che i rivelatori sono spenti e scompare quando questi vengono attivati. Sembra dunque che il fotone sappia in anticipo, prima di attraversare il diaframma, se ad attenderlo vicino allo schermo vi sia un rivelatore acceso o spento.

L’esperimento appena descritto è noto col nome di scelta ritardata perché la scelta da parte dello sperimentatore di rivelare o meno il fotone avviene dopo che il fotone ha già attraversato il diaframma. Questa esperienza è stata proposta nel 1978 dal grande fisico Archibald Wheeler come un esperimento mentale, ma in seguito è stata effettivamente realizzata negli anni ‘80 del secolo scorso. Wheeler ha anche formulato una versione astronomica dell’esperimento (ancora mai effettuata), amplificandone l’effetto sbalorditivo. È noto dalla teoria della Relatività generale che i raggi luminosi risentono dell’effetto della gravità e che si incurvano in un campo gravitazionale, proprio come accade alla traiettoria di una particella materiale. Da qui nasce il noto fenomeno delle lenti gravitazionali. Supponiamo che una galassia sia interposta tra la Terra e un quasar, ovvero una potente radiogalassia distante alcuni miliardi di anni luce. Due raggi luminosi emessi dal quasar in direzioni diverse vengono incurvati dalla galassia che funge da lente gravitazionale e vengono focalizzati sulla Terra, dando luogo, all’interno dei nostri telescopi, a immagini multiple del quasar stesso. A noi qui, comunque, non interessa quest’ultimo aspetto, ma il fatto che la galassia si sostituisca alle due fenditure nell’esperimento di Young per definire i due percorsi dei raggi luminosi. In linea di principio, se si accumula un numero sufficiente di fotoni del quasar, essi dovrebbero dare luogo a una figura di interferenza su una lastra fotografica a lunga esposizione nel caso in cui non si compia alcun tentativo di rivelarne la traiettoria. Se invece gli astronomi decidessero di porre dei rivelatori per individuare il reale percorso di ciascun fotone, ci si aspetta che l’interferenza sparisca e si formino solo due bande luminose, proprio come nell’esperimento in laboratorio. Questo significa che i fotoni dovevano già “sapere” ,diversi miliardi di anni prima della formazione del Sistema solare, che noi li avremmo osservati. Se questa particolare versione dell’esperimento di scelta ritardata dovesse venire un giorno effettivamente realizzata, mostrerebbe che il passato nel mondo quantistico è influenzato dal tipo di osservazioni che noi decidiamo di fare ora (Fig. 4).

 

 

Fig. 4. La luce proveniente da un quasar lontano (posto a destra) viene deflessa da una galassia e diretta verso la Terra (posta in c). I fotoni possono raggiungere la Terra lungo due percorsi che simulano le fenditure dell’esperimento di Young (Fig. 2). I rivelatori sono posti in a e b.

 

L’esperienza di scelta ritardata descritta più sopra, con la sua versione cosmica, è stata presa in considerazione da alcuni per spiegare, senza ricorrere esplicitamente a Dio, come mai i fenomeni naturali nell’universo appaiono “fatti apposta” per dare luogo alla vita. Gli osservatori odierni avrebbero la possibilità di dare forma alla natura della realtà fisica nel passato, quando ancora non esistevano. La vita intelligente, dunque, non sarebbe un sottoprodotto ininfluente dell’evoluzione del cosmo, ma ne sarebbe parte attiva: l’universo spiega gli osservatori e gli osservatori spiegano l’universo.

Più pragmatica la posizione di Richard Feynman, uno dei più brillanti fisici del secolo scorso, premio Nobel nel 1965, il quale riteneva che l’esperimento della doppia fenditura fosse assolutamente impossibile da spiegare in modo classico e che in esso risieda il cuore della meccanica quantistica: «In realtà esso contiene l’unico mistero. Non possiamo eliminare il mistero spiegando perché funziona. Possiamo solo dire come funziona».

 


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