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Fotoni preveggenti
Annibale D’Ercole

 

Nel secolo diciottesimo, la stragrande maggioranza degli studiosi aderiva alla teoria corpuscolare della luce di Newton, secondo cui la radiazione consiste di un aggregato di corpuscoli piccolissimi. La contemporanea teoria ondulatoria di Huygens poteva vantare solo pochi sostenitori. All’inizio del secolo diciannovesimo, però, Young scoprì che in certe circostanze due fasci di luce possono indebolirsi a vicenda, un fenomeno assolutamente inspiegabile nella teoria corpuscolare. Il famoso esperimento di interferenza di Young confermò inequivocabilmente la natura ondulatoria della luce. All’inizio del ventesimo secolo, tuttavia, il fenomeno dell’effetto fotoelettrico si mostrò refrattario a una spiegazione basata sulla teoria ondulatoria e fu interpretato da Einstein ipotizzando una natura corpuscolare della luce. Si è così affermato per la radiazione (ma anche per la materia) il concetto di dualismo onda-particella. Ogni processo può essere interpretato in termini ondulatori o corpuscolari, ma non siamo in grado di determinare la “vera” natura della luce. Data la fondamentale importanza dell’esperimento di Young e dell’effetto fotoelettrico nella formulazione di questo dualismo, ne riportiamo gli aspetti salienti.

 

L’esperimento di Young

 

Un fronte luminoso (che assumiamo, per semplicità, monocromatico, ovvero composto da onde di una sola lunghezza d’onda l, come quelle di un laser) investe un diaframma dotato di due fenditure. Se la luce fosse composta da particelle, esse proseguirebbero la loro traiettoria rettilinea oltre le fenditure e andrebbero a formare due bande luminose sopra uno schermo posto oltre il diaframma. Invece, sullo schermo compare un sistema di frange equidistanti chiare e scure (si veda Fig. 2). Questo si spiega ammettendo che dalle aperture del diaframma si diffondono in avanti onde sferiche in grado di interferire.

Consideriamo due percorsi luminosi r1 e r2 (indicati dalle due linee punteggiate in Fig. 5) che partono dalle due fenditure e che giungono nel medesimo punto y dello schermo. Se la distanza D tra diaframma e schermo è molto maggiore della distanza d tra le due fenditure (D >> d), si ha q¢ » q e la differenza di lunghezza d = r1 r2 può essere scritta come d = d sinq.

 

 

Fig. 5. Schema della formazione di frange di interferenza nell’esperimento di Young.

 

Si ottiene la formazione di una frangia luminosa nel punto y se le ampiezze delle due onde che avanzano lungo r1 e r2 interferiscono costruttivamente in y, ovvero se la cresta (o il ventre) di una si sovrappone alla cresta (al ventre) dell’altra. Questo avviene se d è pari a un multiplo intero di l, ovvero

d sinq = nl, n = 1, 2, 3, …            (1)

Dalla Fig. 5 si vede che tanq = y/D. Se si è posto lo schermo a grande distanza, l’angolo q è piccolo e vale la seguente catena di approssimazioni:

tanq » sinq » q » y/D.

Dunque, in base all’eq. (1), le frange luminose si formano nei punti yn

yn » nl D/d, n = 1, 2, 3, …

Lo schermo, invece, rimane in ombra in tutti i punti in cui convergono due tragitti la cui differenza in lunghezza è data da un numero semintero di lunghezze d’onda, in modo che la cresta di un’onda si sovrapponga con il ventre dell’altra dando luogo a un’interferenza distruttiva:

d sinq = (n + 0,5)l, n=1, 2, 3, …

 

L’effetto fotoelettrico

 

Se una superficie metallica viene illuminata con luce appropriata, è possibile estrarne elettroni. È naturale supporre che il campo elettrico della radiazione, se sufficientemente intenso, riesca a strappare gli elettroni dall’attrazione dei nuclei atomici del metallo e sbalzarli via. Tuttavia, le caratteristiche dell’effetto fotoelettrico non si riescono a spiegare all’interno di uno schema ondulatorio della radiazione elettromagnetica. Queste caratteristiche si riassumono nei seguenti punti:

 

1)    la velocità degli elettroni (e dunque la loro energia cinetica) espulsi non dipende dall’intensità della radiazione, ma dalla sua frequenza: maggiore è la frequenza, maggiore è la velocità;

2)    raggi luminosi di frequenza inferiore a una certa frequenza critica ncr (che dipende dal tipo di metallo) non sono in grado di estrarre elettroni, indipendentemente dalla loro intensità;

3)    il numero degli elettroni estratti è proporzionale all’intensità luminosa: se questa raddoppia, raddoppia anche quello.

 

Ora, si intuisce facilmente che l’energia trasportata da un’onda è legata alla sua ampiezza (per la precisione, il quadrato dell’ampiezza): i danni provocati da una mareggiata sono maggiori per onde con altezza maggiore. Analogamente, l’intensità di un fascio luminoso (che assumiamo, per semplicità, monocromatico) dipende dall’ampiezza dell’onda elettromagnetica, ovvero alla massima intensità raggiunta dal campo elettrico (e magnetico) durante le oscillazioni. Pertanto, ci si aspetta che un raggio luminoso più intenso interagisca con lo stesso numero di elettroni, ma trasferendo loro una maggiore energia, e portandoli quindi a velocità più alte. Come si vede, la teoria ondulatoria della luce conduce a previsioni in disaccordo con i fatti sperimentali elencati in precedenza.

Nel 1905, Albert Einstein spiegò l’effetto fotoelettrico con l’ipotesi che i raggi luminosi siano composti da particelle, chiamate fotoni, la cui energia è direttamente proporzionale alla frequenza della radiazione corrispondente: E = hn, dove h è la costante di Planck e n la frequenza di radiazione. Secondo la teoria formulata da Einstein, incidendo sulla superficie di un corpo metallico, i fotoni cedono la propria energia agli elettroni del conduttore, provocandone l’estrazione. Ogni elettrone acquista un’energia cinetica K = 0,5 mu2, dove m è la massa dell’elettrone e u la sua velocità. Questa energia è pari a

K = hn F.         (2)

F rappresenta il potenziale di estrazione del metallo, ovvero l’energia che deve essere ceduta all’elettrone per svincolarlo dalla forza elettrostatica dei nuclei atomici che lo trattiene all’interno del metallo stesso. Si capisce dunque che l’elettrone può essere estratto solo se la radiazione incidente ha una frequenza pari o superiore a ncr = F/h: l’energia del fotone in eccesso rispetto al potenziale di estrazione viene trasferita all’elettrone sotto forma di energia cinetica. È interessante notare che l’eq. (2) può essere utilizzata per ricavare il valore della costante di Plank. Si può infatti ripetere l’esperimento due volte, utilizzando radiazioni di frequenze note diverse n1 e n2, e misurare nei due casi le energie cinetiche degli elettroni, K1 e K2. In base all’eq. (2) si ottiene pertanto

h = (K1K2)/(n1n2).

Secondo Einstein, dunque, l’energia dell’elettrone liberato dipende solo dall’energia del fotone, mentre l’intensità della radiazione è direttamente correlata al numero di fotoni trasportati dalla radiazione e pertanto può influire sul numero di elettroni estratti dal metallo, ma non sulla loro energia. Lo scienziato tedesco riuscì così a spiegare tutti i fatti sperimentali concernenti l’effetto fotoelettrico e gli fu conferito per questo il premio Nobel nel 1921.

 


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