L’effetto Casimir
Annibale D'Ercole
Osservatorio Astronomico - Bologna

L’effetto Casimir è un fenomeno tipicamente quantistico, e sarà dunque bene richiamare alcune nozioni di meccanica quantistica prima di darne una descrizione, sia pure superficiale.

In meccanica classica non si incontra alcuna difficoltà nella definizione della posizione e della velocità di un oggetto macroscopico, ad esempio una bilia di vetro. Nel mondo microscopico, tuttavia, la questione è più complessa e la posizione e la velocità di una particella elementare, ad esempio un elettrone, non possono essere determinate con esattezza a causa del Principio di Indeterminazione di Heisemberg. Tale principio costituisce il fondamento della meccanica quantistica e stabilisce che quanto più esattamente conosciamo l’impulso p (ovvero la massa×velocità) di una particella, tanto più approssimativa è la nostra conoscenza della sua posizione x.

Intuitivamente possiamo ragionare come segue: per osservare la bilia di vetro e misurarne la posizione dobbiamo illuminarla; in questo caso l’energia del raggio luminoso è trascurabile e non ha effetto sul moto, e dunque sulla velocità della bilia. Se però investiamo un elettrone con dei fotoni, questi ultimi, avendo un’energia paragonabile a quella dell’elettrone, ne deflettono la traiettoria alterando l’impulso dell’elettrone di una quantità Dp. Una maggiore illuminazione permette una più precisa determinazione della posizione, ma una peggiore misura dell’impulso, con un incremento di Dp. Più precisamente, l’incertezza sulla posizione Dx e quella sull’impulso sono legate dalla relazione Dp × Dx ≥ h/2π, dove h è la costante di Plank. Un’analoga relazione vale per le incertezze relative all’energia E ed il tempo t: l’energia di una particella (ad esempio l’energia cinetica legata alla sua velocità) non rimane sempre costante, ma può fluttuare nel tempo. Maggiore è la fluttuazione di energia DE, minore è l’intervallo di tempo Dt in cui essa si verifica prima di svanire: DE × Dt ≥ h/2π.

È importante sottolineare che queste incertezze non sono dovute all’incapacità dell’osservatore a compiere misure accurate, ma rappresentano reali, ineliminabili fluttuazioni a cui sono sottoposte le particelle elementari. Proprio a causa di queste fluttuazioni i fisici hanno dovuto abbandonare la rappresentazione deterministica del mondo macroscopico in favore di una descrizione di tipo probabilistico, più adatta al mondo microscopico. Data l’incertezza nella posizione di una particella, la sua traiettoria non sarà descritta da una determinata funzione x(t) che associa una posizione precisa ad ogni istante, ma dalla cosiddetta funzione d’onda ψ(x,t) che attribuisce la probabilità che la particella si trovi nella posizione x al tempo t.

Alla luce di quanto abbiamo detto, si deduce che in meccanica quantistica ciò che normalmente consideriamo come uno spazio vuoto non può essere completamente vuoto, poiché altrimenti tutti i campi, come quello gravitazionale e quello elettromagnetico, sarebbero pari esattamente a zero. Ma questo non è possibile per il Principio di Indeterminazione. In meccanica quantistica i campi continui della fisica classica, p.e. i campi elettrici e magnetici, vengono descritti in termini di particelle discrete dette fotoni. Un campo elettromagnetico esattamente nullo equivarrebbe ad una assenza assoluta di fotoni, ovvero un’energia dei fotoni esattamente uguale a zero. Il Principio di Indeterminazione impone, invece, una incertezza sul valore dell’energia dei fotoni, che deve fluttuare di una quantità DE. Nel vuoto, dunque, si creano dal nulla fotoni di energia DE; questa violazione della legge di conservazione dell’energia non può perdurare a lungo, e i fotoni tornano a unirsi annichilendosi a vicenda dopo un tempo Dt. Fotoni con energia maggiore sopravvivono per tempi minori.

Quel che abbiamo detto per il campo elettromagnetico vale per qualunque campo ψ(x,t), e dunque nel vuoto si creano coppie di particelle e antiparticelle di ogni tipo (p.e. elettroni e antielettroni) che poi si annichilano a vicenda. Queste particelle vengono chiamate virtuali. A differenza di quelle reali, non possono essere osservate direttamente con un rivelatore di particelle. Tuttavia, è possibile misurare i loro effetti indiretti, come nel caso dell’effetto Casimir. Questo effetto consiste in una forza attrattiva che si sviluppa tra due lamelle metalliche poste nel vuoto ad una distanza L di alcune decine di raggi atomici (un raggio atomico è dell’ordine di 10-8 cm). Esso è dovuto principalmente alla presenza di fotoni virtuali, mentre altri tipi di particelle virtuali danno un contributo trascurabile. Nello spazio esteso possono crearsi fotoni di qualunque lunghezza d’onda l (e dunque di qualunque frequenza n=c/l, dove c è la velocità della luce). Nello spazio tra le due lamelle, invece, possono crearsi solo fotoni di lunghezza d’onda l=2L/n, con ogni valore intero positivo di n. Dal momento che l’energia di un fotone è pari ad hn, l’energia totale dei fotoni tra le due lamelle è data solo dalla somma delle energie dei fotoni con frequenza no=c/2L o multipla di questa: n=nno: dunque Eint = (hc/2L)ån, dove con ån si intende la somma di tutti gli interi da n=1 a n=¥. Nello stesso spazio, in assenza delle lamelle, tutte le lunghezze d’onda sono ammesse e dunque l’energia totale associata al vuoto è data dal contributo di fotoni di tutte le possibili frequenze e non solo da quelli con frequenze particolari: in questo caso, dovendo sommare frequenze che variano in maniera continua piuttosto che discreta, l’energia totale si ottiene tramite l’integrale Eest = (hc/2L)òndn. Benché Eint ed Eest abbiano entrambi un valore infinito, la differenza di energia dE = Eest -Eint è finita e pari a dE = hc/24L  (in meccanica quantistica capita sovente di dover “maneggiare” quantità infinite, una difficoltà spesso aggirata con tecniche matematiche dette di rinormalizzazione). La quantità dE può essere intesa come il lavoro che deve essere compiuto (ovvero l’energia che deve essere spesa) da una forza F per separare le due lamelle ad una distanza L contrastando la loro tendenza a riavvicinarsi, tendenza dovuta allo squilibrio dell’energia del vuoto tra spazio esterno e spazio interno. Ricordando che il lavoro è dato da forza ´ spostamento, semplificando un poco possiamo scrivere F ´ L = d E, da cui si ricava che l’intensità della forza è pari a F = hc/24L2. In effetti, la formula appena ricavata è stata ottenuta in approssimazione unidimensionale, tenendo conto cioè solo della distanza tra le due lamelle; se si considera l’effettivo volume esistente tra di esse, si ottiene la formula corretta per la forza di Casimir

 

 

 

dove A è l’area delle lamelle. Per esempio, due lamelle con un area di 1 cm2 separate da una distanza di 1 micron (pari a 10 -4 cm) sono sottoposte a una forza di Casimir di circa 10-7 N, più o meno il peso di una gocciolina d’acqua di mezzo millimetro di diametro. Benché questa forza possa apparire piccola, data la sua forte dipendenza da L essa diventa la forza più importante tra due oggetti neutri per distanze inferiori al micron. Per una separazione di 0.01 micron — circa cento volte le dimensioni di un atomo — l’effetto Casimir produce una pressione pari a quella atmosferica.

La forza di Casimir è stata osservata per la prima volta nel 1996, circa cinquanta anni dopo la previsione di Casimir, ed il valore misurato è risultato in accordo con il valore aspettato entro un errore sperimentale del 5%. Misure successive hanno ridotto l’errore all’1%.

 


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