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In una
precedente spigolatura si sottolineava come anche un’occhiata distratta al
cielo stellato ci permettesse di notare le differenti luminosità delle
stelle. Altrettanto evidenti, però, sono i differenti colori che
caratterizzano gli astri. Alcune stelle risplendono con un’intensa luce
bianco-azzurrina, altre appaiono gialle, altre ancora sono decisamente rosse.
Si può così osservare, ad esempio, il rosso di Aldebaran e di Antares, oppure
il giallo di Capella o il bianco brillante di Vega
e di Sirio, la stella più luminosa dei nostri cieli. Al di
là del gradevole effetto che questa parata cromatica ci propone, la presenza
dei colori porta con sé importanti considerazioni di carattere fisico e
astronomico. Quando i
fisici cominciarono a studiare l’emissione luminosa di un corpo
incandescente, si accorsero che il cambiamento della temperatura del corpo
riscaldato portava con sé anche la variazione di colore della luce emessa.
Man mano che la temperatura di un corpo aumenta, il suo colore passa dal
rosso cupo al giallo fino a giungere al bianco brillante. Una caratteristica
certamente già ben nota agli esperti costruttori di lame dei secoli passati
che erano in grado di determinare “a occhio” la temperatura del metallo e
riuscivano, in tal modo, a rendere ottimale il processo di tempra. Questa
relazione trova la sua espressione fisica nella cosiddetta legge dello spostamento di Wien, una
relazione che descrive il legame tra la temperatura del corpo e l’intensità
della radiazione emessa. Nel diciannovesimo secolo lo studio dell’emissione
luminosa era al centro dell’attenzione dei fisici e già era stato introdotto
il concetto di radiatore ideale, o corpo nero. Mancava ancora una
formulazione corretta e completa – formulazione che verrà introdotta solo nel
1901 grazie all’intuizione di Max Planck – ma, alla fine dell’Ottocento, la
legge della radiazione del corpo nero aveva al suo attivo un gran numero di
accurate misurazioni. Fig. 1. Nella
fig. 1 si vede chiaramente come all’aumentare della temperatura corrisponda
lo spostamento verso sinistra del
punto più alto di ogni singola curva. La posizione del massimo
dell’intensità, cioè, dipende dalla temperatura e, man mano che questa sale,
il punto più alto della curva slitta verso lunghezze d’onda più piccole. L’applicazione
immediata degli studi sul radiatore ideale all’astronomia fu quella di
considerare le stelle come una buona approssimazione del corpo nero. Questo
comportava che i differenti colori, osservati tra gli astri, altro non
fossero che il segnale di differenti temperature superficiali. Lo
studio dello spettro della luce emessa dalle stelle aveva portato
all’introduzione di classi spettroscopiche, caratterizzate dalla presenza e
dall’intensità di particolari righe spettrali. Questa classificazione, nota
come Harvard Spectral
Sequence - che deriva dai lavori pionieristici
di Angelo Secchi, iniziati nel 1863 - si poteva benissimo leggere anche in
termini di colore e temperatura superficiale delle stelle. Ogni classe
spettrale, contraddistinta da una lettera dell’alfabeto, era caratterizzata
da una differente temperatura superficiale e, di conseguenza, da un ben
preciso colore. A
proposito delle lettere che contraddistinguono le varie classi è certamente
nota la filastrocca che permette di ricordarne la sequenza: “Oh, Be A Fine
Girl, Kiss Me”. Altre classi (R, N e S) sono state in seguito aggiunte a
queste sette, ma le successive riedizioni della filastrocca (p.e. “… Right Now, Smack”)
non mi risulta abbiano avuto uguale successo. La
tabella 1 mostra la temperatura superficiale ed il corrispondente colore per
ciascuna di queste classi fondamentali. Le temperature indicate nella tabella
sono espresse in gradi assoluti (°K) e, ovviamente, si riferiscono al valore
della temperatura superficiale delle stelle. Tabella
1
Per
ottenere una graduazione più fine, ogni classe è a sua volta suddivisa in 10
sottoclassi numerate da A
noi interessa rilevare come il colore possa diventare un ottimo indicatore
della temperatura superficiale di una stella. Ma gli astronomi non possono
limitarsi ad indicazioni vaghe. Stabilire, però, se una stella è più o meno
gialla o più o meno rossa di un’altra è un’impresa persa in partenza se non
ci si affida a strumenti di rilevazione oggettivi. È esperienza comune,
infatti, come la percezione del colore nella vita quotidiana sia in molte
circostanze estremamente soggettiva (e non solo per chi è affetto da
daltonismo). Senza
contare poi che il nostro occhio non ha uguale sensibilità con tutti i
colori. A questo proposito è interessante sottolineare come l’occhio umano
veda meglio nel giallo, proprio il colore della superficie del nostro Sole. E
non si tratta solo di una fortunata coincidenza ... Guardando
ancora la fig. 1, però, possiamo suggerire un’altra considerazione.
Certamente non sfugge il fatto che l’area delimitata dalle curve
corrispondenti alle diverse temperature aumenta man mano che la temperatura
cresce. Poiché la potenza emessa dal corpo nero è proporzionale a quest’area,
è evidente che i corpi più freddi irraggeranno molto meno di quelli a temperatura
elevata. Come spiegare, dunque, l’enorme flusso luminoso che ci proviene da
alcune stelle rosse? Il trucco è tutto racchiuso nelle loro enormi
dimensioni. Queste stelle, dette giganti rosse, hanno una superficie radiante
immensa e benché ogni metro quadrato della loro superficie irraggi molto meno
di altre stelle, l’effetto finale che ne risulta è che la stella appaia
migliaia di volte più luminosa. Ancora più estrema è la situazione delle
supergiganti rosse, le stelle più grandi che si conoscano. Le loro dimensioni
sono davvero mastodontiche: se il raggio di Betelgeuse (circa 7 Unità
Astronomiche) ci sembra immenso, cosa dovremmo dire di μ Cephei, una palla infuocata di 11,8 Unità Astronomiche di
raggio?
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