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Il carburante delle stelle
Claudio
Elidoro
Gli
affezionati lettori di questa rubrica ricorderanno certamente come in precedenti
spigolature abbiamo analizzato i parametri più significativi che
caratterizzano una stella. In tali occasioni non ci siamo limitati ad
affrontare unicamente alcuni aspetti teorici riguardanti il colore, la
luminosità, la temperatura e la massa degli astri, ma siamo persino riusciti
– nonostante la complessità della materia – a eseguire semplici calcoli
verificando sul campo la fondatezza dei nostri discorsi. Dal momento, però,
che non ci siamo mai chiesti quale possa essere il carburante che garantisce
la produzione energetica di una stella, proviamo ad affrontare l’argomento in
questa spigolatura. Semplificando al massimo la
situazione, abbiamo a più riprese affermato che una stella è una struttura
sferica di plasma che rimane in equilibrio grazie al contrapporsi di due
forze. La titanica competizione vede in lizza la forza gravitazionale, che
tende a far collassare cioè a far cadere verso il centro il gas della stella,
contrastata dall’azione del calore, che spinge la stella a gonfiarsi. Il
fatto che in azione ci sia un fenomeno termico è fuori discussione. Anche chi
sa poco di fisica comprende perfettamente che il calore e la luce che
provengono dal Sole non ci permettono il minimo dubbio. Ma quali sono la
natura e il carburante di questa fornace che alimenta il Sole e le stelle?
Tutti quanti conosciamo già la risposta e questo potrebbe rendere la domanda
davvero inutile. Chi non sa, infatti, che all’origine di quella smisurata
produzione di energia ci sono le reazioni termonucleari? Benché oggi questa
spiegazione la si trovi sui libri scolastici di ogni ordine e grado, non è
sempre stata così scontata. Può essere dunque istruttivo provare ad analizzare
quali possibili fonti alternative sono state proposte per giustificare la
produzione energetica del Sole. Fig. 1. Un’immagine del Sole ripresa dal satellite soho (Solar
and Heliospheric Observatory)
nella regione x dello spettro
elettromagnetico. Il primo tentativo per spiegare quella
smisurata produzione di luce e calore è stato certamente quello di ricorrere
ai fenomeni più familiari. Tra questi, senza dubbio, la combustione poteva
avere le carte in regola. Non per nulla le prime teorie sulla natura del Sole
lo descrivono come una enorme fornace. Appena gli strumenti fisici
consentirono una valutazione delle grandezze in gioco, però, si scoprì come
una simile spiegazione fosse assolutamente incompatibile con l’età del Sole.
Fino a quando ressero i calcoli di James Ussher
(1581-1656)[1] – che collocavano Fu in quegli stessi anni che Hermann
von Helmholtz e Lord Kelvin suggerirono l’ipotesi della contrazione
gravitazionale. Sostanzialmente il calore del Sole derivava ancora dalla
trasformazione di energia cinetica, ma questa volta non erano oggetti esterni
al Sole a fornirla, bensì la materia stessa della nostra stella che tendeva a
precipitare verso il suo centro. I calcoli (vedi livello avanzato) possono confermare che un simile
meccanismo riesce a mantenere in vita il Sole per una ventina di milioni di
anni. Un tempo estremamente lungo se confrontato con i precedenti risultati,
ma che è ancora troppo lontano dal garantire l’esistenza del Sole per i circa
cinque miliardi di anni necessari (valore derivato dagli studi sull’età del
Sistema solare). L’idea di von Helmholtz e di Kelvin, però, non va presa alla
leggera. Il meccanismo della produzione di energia per contrazione
gravitazionale è infatti attivo e fondamentale nelle fasi iniziali della vita
di una stella. E’ il calore proveniente da questa contrazione che permette agli
astronomi di individuare le stelle che ancora non si sono collocate sulla
sequenza principale. Ed è sempre questo calore che spiana la strada
all’innesco delle reazioni termonucleari che alimenteranno la fornace
stellare. Per giungere finalmente a capo del
mistero della produzione energetica delle stelle, però, bisognerà attendere
fino al termine degli anni Trenta del Novecento. Fu in quel periodo, infatti,
che i fisici tedeschi Hans Bethe e Carl von Weizsäcker formularono, in modo indipendente l’uno dall’altro,
la teoria della fusione dell’idrogeno quale meccanismo fondamentale di
produzione dell’energia stellare. Gli astrofisici sapevano che l’energia
stellare proveniva da processi nucleari, ma non sapevano quali fossero. I
tempi, però, erano ormai maturi e, quasi contemporaneamente, Bethe e Weizsäcker proposero i
possibili cicli di reazioni nucleari in grado di assicurare quella fusione.
Ormai era chiaro: l’incredibile energia prodotta dal Sole e dalle stelle
proveniva da quattro nuclei di idrogeno che si aggregavano per formare un
nucleo di elio. Non una banale trasformazione chimica, ma una reazione che
coinvolge l’essenza stessa della materia. La semplice equazione di Albert
Einstein che lega tra loro in modo indissolubile la massa e l’energia, dunque,
trova applicazione in un fenomeno che, giorno e notte, è sotto il nostro
naso. Basta alzare gli occhi alla volta celeste. Per i dettagli, però, è
buona cosa rimandare a un’altra occasione, riservandoci un po’ più di spazio. Fig. 2. Tre immagini del Sole riprese nel settembre
1997 da eit
(Extreme ultraviolet
Imaging Telescope), a bordo del satellite soho (Solar and Heliospheric
Observatory), nel lontano ultravioletto,
rispettivamente (dall’alto al basso) nella riga dell’He ii , 304 Å, nelle righe del Fe ix/x, a 171 Å, e nelle righe del Fe xii, a 195 Å (esa e nasa).
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[1] James Ussher (1581-1656)
fu Arcivescovo di Armagh, Primate d’Irlanda e Vice-Cancelliere del Trinity
College di Dublino. Compilò un trattato di cronologia basato su relazioni tra
antiche cronache e le Sacre Scritture che fu molto diffuso per lungo tempo e
venne incluso in una versione autorizzata della Bibbia del 1701. Dai suoi
complicati calcoli cronologici dedusse che