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La magnitudine stellare
Claudio
Elidoro
Anche
un’occhiata distratta al cielo stellato ci può permettere di verificare che
non tutte le stelle brillano con la medesima intensità. Non dobbiamo
stupirci, dunque, se il concetto di magnitudine stellare ci giunge fin
dall’antichità. Già
nel secondo secolo a.C. il grande Ipparco di Nicea, compilando il suo
catalogo astronomico, introdusse una classificazione delle stelle tenendo
conto della loro brillantezza, classificazione che venne mantenuta anche da
Tolomeo verso la fine del secondo secolo d.C. La scala scelta dai due
astronomi prevedeva che le stelle più luminose venissero collocate nella prima
classe, quelle un po’ meno luminose nella seconda e, giù giù,
fino a quelle appena visibili a occhio nudo, collocate nella sesta classe.
Erano tempi in cui ancora non esisteva neppure il dubbio che le stelle
potessero essere a differenti distanze da noi, ma tutte venivano considerate
alla medesima distanza, fissate su quell’enorme sfera che costituiva la volta
celeste. Logico concludere, sotto questa ipotesi, che una maggiore quantità
di luce significasse anche una maggiore dimensione. E così avvenne che lo
stesso termine usato per identificare le classi di Ipparco (magnitudo) sottolineasse proprio
questa constatazione. Banale
sottolineare come si trattasse di una scala soggettiva e tutt’altro che
precisa, legata com’era all’acutezza visiva dell’osservatore, alla sua
capacità valutativa e alle condizioni osservative. Fortunatamente erano tempi
nei quali l’inquinamento luminoso ancora non esisteva, ma è evidente che
prima o poi sarebbe stato indispensabile dare alla classificazione una
connotazione più scientifica. Ci provò inizialmente William Herschel (1738 –
1822), annotando come una stella di prima magnitudine fosse circa 100 volte
più brillante di una di sesta, ma la soluzione definitiva fu opera di Norman
Robert Pogson (1829 – 1891). Utilizzando un primitivo
fotometro ebbe la conferma di quanto Herschel aveva segnalato e questo lo
indusse nel La
risposta dell’occhio umano agli stimoli luminosi, però, non è di tipo
lineare. Negli stessi anni in cui Pogson avanzava
la sua proposta, Fechner e Weber dimostrarono che
nella percezione visiva la sensazione era proporzionale al logaritmo dello
stimolo. Questo, applicato al caso delle stelle, significava che la
magnitudine era proporzionale al logaritmo dell’illuminamento, vale a dire: (1) Fissata
dunque una stella di riferimento caratterizzata da illuminamento Io
e magnitudine mo si poteva definire la magnitudine di un’altra
stella caratterizzata da illuminamento I come: (2) Applicando
alla (2) la convenzione proposta da Pogson si
determina il valore di k ottenendo: (3) L’espressione
(3) è dunque nota come Formula di Pogson e descrive
il legame tra la magnitudine di una stella e il flusso luminoso che giunge al
nostro occhi. Ci
sono un paio di aspetti poco felici nella scelta di Pogson
di fare in modo di restare fedele alla classificazione di Ipparco. Il primo è
che, contrariamente a quanto il senso comune potrebbe suggerire, la
luminosità maggiore corrisponde a numeri più bassi, con la spiacevole
conseguenza che per il profano alcuni diagrammi in cui compaiono le
magnitudini non sono di immediata lettura. Un secondo aspetto è che per
oggetti particolarmente luminosi si è costretti a ricorrere ai numeri
negativi. Sirio, per esempio, ha una magnitudine di – 1.4 mentre per il Sole
si deve raggiungere il valore di – 26.74. Nella
fig. 1 sono riportati i valori
di magnitudine di alcuni corpi celesti. È un grafico indicativo ed
estremamente semplificato, ma è certamente in grado di dare un’idea
dell’estensione di questa scala. Fig. 1. Si
è già sottolineato che per gli antichi non si poneva il problema della
distanza di una stella. Per noi non è più così: sappiamo infatti che le
stelle non sono a uguale distanza da noi e questa semplice constatazione ci
impone una riflessione. La magnitudine che noi rileviamo non dà alcuna
informazione sulla effettiva quantità di luce irradiata da una stella, ma si
limita ad indicare che al nostro occhio giunge più (o meno) energia luminosa
che non da un’altra. Non siamo in grado, cioè, di distinguere se la stella
più luminosa emette maggiore flusso luminoso o è semplicemente più vicina.
Per questo motivo ci si riferisce alle magnitudini definite da Pogson con il termine di magnitudini apparenti, intendendo con questo aggettivo il fatto
che le luminosità considerate sono quelle che appaiono agli occhi
dell’osservatore. E’
dunque necessario definire una nuova grandezza che dia una corretta misura
del rilascio di energia luminosa di una stella, svincolandola dagli effetti
della distanza. Questa grandezza è la magnitudine
assoluta (M), definita come la magnitudine che la stella avrebbe se
venisse osservata da una distanza fissata (arbitrariamente) in 10 parsec
(32.6 anni luce). L’espressione
che lega tra loro la magnitudine apparente (m), quella assoluta (M) e la
distanza (d) espressa in parsec è la seguente: (4) Per
ovvie ragioni di spazio il nostro discorso deve concludersi qui, ma è
inevitabilmente destinato a riaffacciarsi su queste pagine per affrontare
alcuni temi fino ad ora lasciati in disparte. Non è stato detto, ad esempio, a
cosa possa praticamente servire la relazione (4). Non è stato fatto nessun
accenno alla diversità di colore che caratterizza le stelle e al suo
possibile significato fisico. Abbiamo inoltre parlato di magnitudini
riferendoci esclusivamente alla rilevazione della luce visibile, ma non è
detto che tutta l’emissione di una stella cada necessariamente in quella
regione dello spettro elettromagnetico. Temi cruciali, come si può ben
intuire, e che sarà dunque necessario approfondire.
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