L'effetto fotoelettrico:
dalla teoria ondulatoria al quanto di luce
Annibale D'Ercole
Osservatorio Astronomico - Bologna
 
E' noto che alcuni metalli hanno la proprietà di perdere elettroni quando vengono esposti a radiazione elettromagnetica di opportuna frequenza.  Questo fenomeno va sotto il nome di effetto fotoelettrico e trova larga applicazione nella tecnologia di utilizzo quotidiano, ad esempio nel meccanismo che regola la chiusura delle porte a scorrimento degli ascensori. In effetti, un raggio luminoso attraversa lo specchio della porta quando questa è aperta.   Questo raggio luminoso va a colpire una cellula fotoelettrica producendo elettroni che attivano il circuito elettrico che regola la chiusura della porta.  Quando si attraversa la porta si viene ad interrompere il raggio luminoso e la corrente elettrica connessa; la chiusura della porta viene inibita e il passeggero non rischia di rimanere schiacciato.

Al di là della sua importanza pratica l’effetto fotoelettrico ricopre un ruolo fondamentale nello studio dei fenomeni elettromagnetici giacché ha permesso di evidenziare la natura corpuscolare della luce.
In effetti, all’inizio del secolo scorso si riteneva che la luce consistesse nella propagazione di onde elettromagnetiche. Per meglio afferrare questo concetto e gli altri che seguiranno, può essere utile sviluppare un’analogia basata su fenomeni più familiari.
Immaginiamo uno specchio d’acqua perfettamente immobile su cui siano posti a galleggiare due sugheri ad una certa distanza l’uno dall’altro. Se facciamo oscillare uno dei due sugheri verticalmente, si producono delle onde circolari che si propagano verso l’esterno.  La frequenza delle onde è pari alla frequenza di oscillazione del sughero, ovvero il numero di creste d’onda che si susseguono in un secondo è pari al numero di oscillazioni al secondo del sughero.  L’ampiezza dell’onda, ossia l’altezza raggiunta da una cresta d’onda rispetto alla superficie imperturbata dell’acqua, è uguale all’ampiezza di spostamento del sughero rispetto alla sua posizione di riposo.  Dopo un tempo opportuno le onde raggiungono il secondo sughero che si mette ad oscillare con la stessa ampiezza e frequenza del primo.
Consideriamo ora un elettrone fermo nello spazio; a causa della sua carica, l’elettrone genera una forza elettrica - il campo elettrico - nello spazio circostante che diminuisce come l’inverso del quadrato della distanza.   Supponiamo ora di far oscillare l’elettrone, similmente al primo sughero dell’esempio precedente. Il campo elettrico nei punti circostanti viene perturbato – assume cioè valori un poco diversi da quelli di partenza – a causa del cambiamento di distanza dall’elettrone durante la sua oscillazione.
Il campo elettrico imperturbato può essere assimilato allo specchio d’acqua iniziale: così come le onde sull’acqua si espandono dal sughero in oscillazione, analogamente le oscillazioni del campo elettrico si propagano dall’elettrone generando le onde elettromagnetiche. Un secondo elettrone, posto ad una certa distanza dal primo, comincerà ad oscillare non appena venga investito dalla radiazione prodotta da quest’ultimo.
(In effetti una variazione di campo elettrico genera un campo magnetico, e viceversa.  Pertanto le oscillazioni di campo elettrico producono un campo magnetico oscillante; i due campi si propagano assieme giustificando il nome di onda elettromagnetica dato a queste oscillazioni.  Tuttavia, per quel che concerne gli argomenti sviluppati in quest’articolo, il campo magnetico può essere trascurato.)

Nei solidi gli elettroni sono legati ai nuclei atomici, che hanno carica contraria, e non si possono allontanare spontaneamente dall’atomo di appartenenza.  Se tuttavia il materiale è illuminato da una radiazione sufficientemente intensa, le oscillazioni elettriche trasportate da questa radiazione sono in grado di strappare via l’elettrone dal suo atomo, fornendogli una determinata velocità e allontanandolo per sempre dall’oggetto illuminato: si realizza così l’effetto fotoelettrico.
Questo punto è importante ed è bene chiarirlo ulteriormente tornando a considerare le onde del mare.  Se il mare è calmo, le sue onde sono delle piccole increspature che producono solo gradevoli oscillazioni ad una barca che si trovi a galleggiare nei pressi. Ma se il tempo peggiora e le increspature si trasformano in onde minacciose la cui altezza (ampiezza) sovrasta la barca, quest’ultima viene rovesciata ed eventualmente distrutta dall’energia eccessiva trasportata dalle onde.  Questo esempio ci fa capire che l’ampiezza di un’onda dà una misura dell’intensità dell’onda stessa, ovvero dell’energia da essa trasportata.
Tornando ora all’effetto fotoelettrico, cosa possiamo aspettarci se illuminiamo del materiale con una radiazione di stessa frequenza ma intensità maggiore?  Secondo la teoria ondulatoria della luce il numero di creste d’onda rimane invariato, ma la loro ampiezza aumenta.  D’altra parte, la violenza con cui questi elettroni vengono espulsi è legata all’intensità della radiazione, ovvero all’ampiezza delle sue oscillazioni.  Dunque, ci si aspetta che, all’aumentare dell’intensità della radiazione, la velocità degli elettroni espulsi aumenti.

In realtà le cose vanno diversamente.
Gli esperimenti mostrano che all’aumentare dell’intensità luminosa l’energia dei singoli elettroni prodotti rimane la stessa, ma aumenta il loro numero.   Per spiegare questo comportamento, nel 1905 Einstein introdusse il concetto di particella, o quanto di energia, detto fotone.  Secondo la teoria quantistica un raggio luminoso non consiste di onde che si propagano, ma di proiettili di luce, i fotoni.   Un raggio luminoso monocromatico, ovvero di una fissata frequenza (come, ad esempio quello generato da un laser) è composto da un flusso di fotoni identici che trasportano ognuno un’energia proporzionale alla frequenza della radiazione.  In questo schema, aumentare l’intensità del fascio luminoso equivale ad aumentarne il numero di fotoni, i quali, tuttavia, mantengono singolarmente la stessa energia.   L’effetto fotoelettrico viene così a spiegarsi naturalmente. Infatti ogni elettrone viene scalzato in seguito all’urto con un singolo fotone che gli comunica una ben determinata energia.  Un aumento dell’intensità luminosa produce un aumento di fotoni e quindi di urti, ognuno dei quali, però, comunica sempre la stessa energia all’elettrone.

Il concetto di fotone si rivelò molto profondo e proficuo.
La teoria quantistica della luce riuscì a riprodurre tutti i fenomeni precedentemente descritti dalla teoria ondulatoria, ed ad Einstein fu assegnato il premio Nobel per la sua interpretazione dell’effetto fotoelettrico (e non per la sua Teoria della Relatività, come si potrebbe credere).  Tuttavia esistono fenomeni di interferenza tra raggi luminosi più facilmente interpretabili con la teoria ondulatoria, "complementari", per così dire, all’effetto fotoelettrico che è descrivibile solo in termini di fotoni.  Questa complementarità della luce, metà onda e metà particella, è una delle tante bizzarrie della meccanica quantistica con cui i fisici hanno imparato a convivere.

 


 
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