E' noto che alcuni metalli
hanno la proprietà di perdere elettroni quando vengono esposti a
radiazione elettromagnetica di opportuna frequenza. Questo fenomeno
va sotto il nome di effetto fotoelettrico e trova larga applicazione
nella tecnologia di utilizzo quotidiano, ad esempio nel meccanismo che
regola la chiusura delle porte a scorrimento degli ascensori. In effetti,
un raggio luminoso attraversa lo specchio della porta quando questa è
aperta. Questo raggio luminoso va a colpire una cellula fotoelettrica
producendo elettroni che attivano il circuito elettrico che regola la chiusura
della porta. Quando si attraversa la porta si viene ad interrompere
il raggio luminoso e la corrente elettrica connessa; la chiusura della
porta viene inibita e il passeggero non rischia di rimanere schiacciato.
Al di là della sua importanza
pratica l’effetto fotoelettrico ricopre un ruolo fondamentale nello studio
dei fenomeni elettromagnetici giacché ha permesso di evidenziare
la natura corpuscolare della luce.
In effetti, all’inizio del secolo
scorso si riteneva che la luce consistesse nella propagazione di onde elettromagnetiche.
Per meglio afferrare questo concetto e gli altri che seguiranno, può
essere utile sviluppare un’analogia basata su fenomeni più familiari.
Immaginiamo uno specchio d’acqua perfettamente
immobile su cui siano posti a galleggiare due sugheri ad una certa distanza
l’uno dall’altro. Se facciamo oscillare uno dei due sugheri verticalmente,
si producono delle onde circolari che si propagano verso l’esterno.
La frequenza delle onde è pari alla frequenza di oscillazione del
sughero, ovvero il numero di creste d’onda che si susseguono in un secondo
è pari al numero di oscillazioni al secondo del sughero. L’ampiezza
dell’onda, ossia l’altezza raggiunta da una cresta d’onda rispetto alla
superficie imperturbata dell’acqua, è uguale all’ampiezza di spostamento
del sughero rispetto alla sua posizione di riposo. Dopo un tempo
opportuno le onde raggiungono il secondo sughero che si mette ad oscillare
con la stessa ampiezza e frequenza del primo.
Consideriamo ora un elettrone fermo
nello spazio; a causa della sua carica, l’elettrone genera una forza elettrica
- il campo elettrico - nello spazio circostante che diminuisce come
l’inverso del quadrato della distanza. Supponiamo ora di far
oscillare l’elettrone, similmente al primo sughero dell’esempio precedente.
Il campo elettrico nei punti circostanti viene perturbato – assume cioè
valori un poco diversi da quelli di partenza – a causa del cambiamento
di distanza dall’elettrone durante la sua oscillazione.
Il campo elettrico imperturbato può
essere assimilato allo specchio d’acqua iniziale: così come le onde
sull’acqua si espandono dal sughero in oscillazione, analogamente le oscillazioni
del campo elettrico si propagano dall’elettrone generando le onde elettromagnetiche.
Un secondo elettrone, posto ad una certa distanza dal primo, comincerà
ad oscillare non appena venga investito dalla radiazione prodotta da quest’ultimo.
(In effetti una variazione di campo
elettrico genera un campo magnetico, e viceversa. Pertanto le oscillazioni
di campo elettrico producono un campo magnetico oscillante; i due campi
si propagano assieme giustificando il nome di onda elettromagnetica dato
a queste oscillazioni. Tuttavia, per quel che concerne gli argomenti
sviluppati in quest’articolo, il campo magnetico può essere trascurato.)
Nei solidi gli elettroni sono legati
ai nuclei atomici, che hanno carica contraria, e non si possono allontanare
spontaneamente dall’atomo di appartenenza. Se tuttavia il materiale
è illuminato da una radiazione sufficientemente intensa, le oscillazioni
elettriche trasportate da questa radiazione sono in grado di strappare
via l’elettrone dal suo atomo, fornendogli una determinata velocità
e allontanandolo per sempre dall’oggetto illuminato: si realizza così
l’effetto fotoelettrico.
Questo punto è importante ed
è bene chiarirlo ulteriormente tornando a considerare le onde del
mare. Se il mare è calmo, le sue onde sono delle piccole increspature
che producono solo gradevoli oscillazioni ad una barca che si trovi a galleggiare
nei pressi. Ma se il tempo peggiora e le increspature si trasformano in
onde minacciose la cui altezza (ampiezza) sovrasta la barca, quest’ultima
viene rovesciata ed eventualmente distrutta dall’energia eccessiva trasportata
dalle onde. Questo esempio ci fa capire che l’ampiezza di un’onda
dà una misura dell’intensità dell’onda stessa, ovvero dell’energia
da essa trasportata.
Tornando ora all’effetto fotoelettrico,
cosa possiamo aspettarci se illuminiamo del materiale con una radiazione
di stessa frequenza ma intensità maggiore? Secondo la teoria
ondulatoria della luce il numero di creste d’onda rimane invariato, ma
la loro ampiezza aumenta. D’altra parte, la violenza con cui questi
elettroni vengono espulsi è legata all’intensità della radiazione,
ovvero all’ampiezza delle sue oscillazioni. Dunque, ci si aspetta
che, all’aumentare dell’intensità della radiazione, la velocità
degli elettroni espulsi aumenti.
In realtà le cose vanno diversamente.
Gli esperimenti mostrano che all’aumentare
dell’intensità luminosa l’energia dei singoli elettroni prodotti
rimane la stessa, ma aumenta il loro numero. Per spiegare questo
comportamento, nel 1905 Einstein introdusse il concetto di particella,
o quanto di energia, detto fotone. Secondo la teoria quantistica
un raggio luminoso non consiste di onde che si propagano, ma di proiettili
di luce, i fotoni. Un raggio luminoso monocromatico, ovvero
di una fissata frequenza (come, ad esempio quello generato da un laser)
è composto da un flusso di fotoni identici che trasportano ognuno
un’energia proporzionale alla frequenza della radiazione. In questo
schema, aumentare l’intensità del fascio luminoso equivale ad aumentarne
il numero di fotoni, i quali, tuttavia, mantengono singolarmente la stessa
energia. L’effetto fotoelettrico viene così a spiegarsi
naturalmente. Infatti ogni elettrone viene scalzato in seguito all’urto
con un singolo fotone che gli comunica una ben determinata energia.
Un aumento dell’intensità luminosa produce un aumento di fotoni
e quindi di urti, ognuno dei quali, però, comunica sempre la stessa
energia all’elettrone.
Il concetto di fotone si rivelò
molto profondo e proficuo.
La teoria quantistica della luce riuscì
a riprodurre tutti i fenomeni precedentemente descritti dalla teoria ondulatoria,
ed ad Einstein fu assegnato il premio Nobel per la sua interpretazione
dell’effetto fotoelettrico (e non per la sua Teoria della Relatività,
come si potrebbe credere). Tuttavia esistono fenomeni di interferenza
tra raggi luminosi più facilmente interpretabili con la teoria ondulatoria,
"complementari", per così dire, all’effetto fotoelettrico che è
descrivibile solo in termini di fotoni. Questa complementarità
della luce, metà onda e metà particella, è una delle
tante bizzarrie della meccanica quantistica con cui i fisici hanno imparato
a convivere.
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