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Il “limite di Eddington”
Annibale
D'Ercole
Osservatorio
Astronomico - Bologna
La pressione esercitata
su un oggetto è definita come la forza che agisce sull’unità di superficie
(p.e. 1 cm2) su cui è applicata. La forza, a sua volta, è misurata
in base alla variazione di quantità di moto nell’unità di tempo (p.e. 1 sec.)
che produce sull’oggetto stesso, come stabilito dalla seconda legge di
Newton. In conclusione, la pressione esercitata dal vento sulla vela di una
barca è pari alla quantità di moto comunicata alla vela dagli atomi del vento
che colpiscono 1 cm2 di vela in 1 secondo. Dal momento che, al
pari degli atomi in movimento, i fotoni che compongono la radiazione sono
anch’essi dotati di quantità di moto, un “vento” di radiazione che illumina
un oggetto esercita una pressione sull’oggetto stesso. Nella vita quotidiana
questa pressione è trascurabile, ma in astrofisica può capitare che diventi
molto importante. Vale dunque la pena calcolare la pressione di radiazione. È
noto dagli esperimenti che un singolo fotone trasporta una quantità di moto q
= E/c, dove c è la velocità del fotone (ovvero la velocità
della luce) e E = hν
è l’energia del fotone, pari al prodotto della costante di Plank, h,
per la frequenza del fotone ν (un’espressione alquanto simile
vale per la quantità di moto q = mυ di un oggetto
materiale di massa m e velocità υ una volta che sia
espressa in termini della sua energia cinetica E = ½mυ2:
q = 2E/υ). Supponiamo ora di avere una sorgente
centrale, ad esempio una stella, la cui radiazione si espanda sfericamente
dal centro: la pressione che la radiazione è in grado di esercitare su
un’ipotetica superficie sferica di raggio r concentrica alla stella è
data dalla quantità di moto dei fotoni che colpiscono la superficie ogni
secondo. Il numero N di fotoni che
in ogni istante raggiungono la nostra ipotetica superficie sferica è uguale
al numero di fotoni prodotti a ogni istante dalla sorgente centrale. Questi
fotoni, moltiplicati ognuno per la propria energia E, danno luogo alla luminosità L della sorgente, definita come l’energia emessa in un secondo: L = NE. Ne consegue che N = L/E e che la quantità di moto
trasportata attraverso la superficie è pari a Q = Nq = NE/c = L/c; la pressione di
radiazione è data dal flusso della quantità di moto per unità di superficie, Prad = Q/4πr2,
ovvero La
formula appena trovata non fornisce ancora l’effettiva forza che la
radiazione è in grado di esercitare su, poniamo, una nube di gas che si
trovasse a distanza r da una
sorgente di luminosità L. Infatti,
se la nube fosse perfettamente trasparente ai fotoni, questi ultimi non
avrebbero modo di interagire con essa. L’opacità di un gas dipende dalle sue
condizioni fisiche; spesso è ragionevole assumere che il gas sia ionizzato,
ovvero che gli elettroni siano slegati dai protoni (assumiamo per semplicità
che il gas sia costituito da idrogeno che è in effetti l’elemento di gran
lunga più abbondante) e che il gas sia composto di fatto da un “mare” di
elettroni che compenetra un “mare” di protoni. In questo caso, l’opacità del gas
è dovuta essenzialmente agli elettroni in quanto reagiscono alla radiazione
molto più prontamente dei protoni che sono quasi 2000 volte più pesanti. Sono
dunque gli elettroni che vengono soffiati via dal “vento” di radiazione; i
protoni, però, rimangono “agganciati” agli elettroni tramite la forza
elettrostatica e vengono trascinati via anch’essi. In conclusione, la forza
effettiva Frad esercitata dalla
radiazione su un singolo elettrone è una frazione sT
del valore calcolato più sopra, dove sT
è la cosiddetta “sezione d’urto Thompson” che tiene conto
dell’opacità degli elettroni: (1) Sulla
nube agisce anche la gravità, in particolare sui protoni che sono più
pesanti. Per un singolo protone vale: dove mp
è la massa del protone ed M la
massa della sorgente centrale. Dunque, un protone tende a cadere verso il
centro a causa di Fgrav e ad
allontanarsi a grandi raggi a causa di Frad.
Perché del materiale possa cadere sull’oggetto centrale è necessario che la
forza esercitata dalla radiazione non superi quella gravitazionale (Frad £
Fgrav). Questa condizione può
essere riscritta come una condizione sulla luminosità, e si ottiene: (2) dove M¤=2´1033
g indica la massa del Sole. Questa disuguaglianza è nota come «limite di
Eddington» e stabilisce che un oggetto centrale di data massa non può avere
una luminosità superiore alla «luminosità di Eddington» data (in unità di
luminosità solari L¤=4´1033
erg s-1) da: Alternativamente,
possiamo dire che, per realizzare una determinata luminosità, è richiesta una
massa centrale minima detta «massa di Eddington» che, espressa in masse
solari, è data da: . Il
limite di Eddington trova una naturale applicazione nel campo
dell’astrofisica delle alte energie e, in particolare, nello studio dei
quasar, galassie nel cui centro viene prodotta tipicamente una luminosità L=1046 erg s-1,
cento volte superiore a quella di tutta la nostra Galassia. Si ritiene che
questa radiazione venga prodotta da gas che, cadendo verso un oggetto
centrale, trasforma la sua energia cinetica prima in calore e poi in
radiazione. Per quanto discusso più sopra, risulta che l’oggetto centrale
responsabile dell’elevata luminosità dei quasar deve avere una massa pari o
superiore alla massa di Eddington M =
8´107
M¤.
Dal momento che la luminosità varia su scale temporali di pochi anni, se ne
deduce (si veda il numero precedente delle Spigolature) che le dimensioni
dell’oggetto centrale devono essere inferiori al parsec (1 pc = 3,08´1018
cm). Ne deriva per l’oggetto centrale una densità circa cento volte superiore
a quella che troviamo nel nucleo centrale di stelle della nostra Galassia. A
causa di una densità così elevata, si ritiene che il “motore” responsabile
della luminosità dei quasar sia un buco nero. Il meccanismo di accrescimento
gravitazionale è in grado di produrre radiazione con un’efficienza dalle 10
alle 60 volte superiore a quella che caratterizza le reazioni nucleari
responsabili della radiazione emessa dalle stelle (si veda il numero
precedente delle Spigolature). A
proposito di stelle, il limite di Eddington ci indica quale sia la massa
massima che una stella può avere. Le stelle sono sfere di gas in equilibrio
idrostatico in cui la gravità è controbilanciata dalla pressione del gas
stesso. Durante la maggior parte della vita di una stella (la cosiddetta fase
di Sequenza Principale) c’è una relazione tra la massa M di quest’ultima e la sua luminosità L; maggiore è la massa, più intense sono le reazioni nucleari e
dunque, in ultima analisi, maggiore è la radiazione prodotta. La
proporzionalità tra massa e luminosità per le stelle più massicce è data da LM2.5. In genere la pressione di radiazione
in una stella è trascurabile; tuttavia, essa cresce con la luminosità
(equazione 1), la quale, come abbiamo visto, a sua volta cresce rapidamente
con la massa stellare secondo una legge di potenza, mentre la gravità cresce
solo linearmente con M. Dunque,
per stelle particolarmente massicce la luminosità raggiunge il limite di
Eddington LEdd
e la pressione di radiazione diventa importante al punto da prendere il
sopravvento sulla gravità disgregando la stella. Tenuto conto dell’equazione
(2) e della relazione massa-luminosità delle stelle, questo avviene per un
valore della massa pari a circa 300 masse solari, che rappresenta dunque il
massimo valore possibile di massa stellare. E, in effetti, le (rare) stelle
massicce osservate hanno una massa non superiore alle 150 masse solari;
l’accordo con la previsione data dal limite di Eddington è molto buono, se si
tiene conto della semplicità delle argomentazioni adottate. |